In occasione del compleanno di Billie Holliday, che ricorre il 7 aprile, vorremmo ricordare una fra le maggiori cantanti di tutti i tempi tra i generi blues e jazz. È trascorso oltre un secolo da quando nacque, a Filadelfia, Lady Day. Un’infanzia travagliata la sua: il padre che l’abbandona poco dopo la nascita, uno stupro a dieci anni, gli anni a lavorare in un bordello per procurarsi da vivere.
Ma forse proprio tutto questo è stato lo stimolo che l’ha portata a cantare. I grandi percorsi artistici spesso sono segnati da eventi che segnano, profondamente (e in maniera irreversibile), la vita di queste persone e così anche quella di Billie. La sua carriera “da cantante” inizia in piccoli club di Harlem come il Nest, il Pod’s and Jerry’s, lo Yeah Man, il Monette’s, solo per citarne alcuni. Billie – inizialmente iscritta all’anagrafe come Eleanora Fagan- protagonista di quei locali notturni, in cui le intrattenitrici passavano da un tavolo a un altro a farsi lasciare le mance tra cosce, aveva qualcosa di diverso che fu ben presto notato non solo dai clienti che frequentavano certi locali da after hours. Nel ’33, infatti, nel locale della cantante Monette Moore, questa voce così penetrante arriva al cospetto di molti musicisti e personaggi famosi, tra cui il talent scout John Hammond, non solo critico e appassionato di jazz, ma ricco puritano con le conosce giuste. Fu lui, infatti, a presentare Billi a Benny Goodman, clarinettista americano bandleader conosciuto come “The King of Swing”, il quale concesse alla cantante l’opportunità di cantare un brano in una seduta d’incisione, sostituendo di fatto la grande e arrogante Ethel Waters. A parte la rivalità tra le due donne che, proprio a partire da questo evento, rimase un fattore che ha influito molto sul modo di fare musica della Holliday anche negli anni a venire, Hammond riuscì a organizzare per Billie un’altra seduta goodmaniana. È da esperienze di questo tipo che le sue canzoni iniziarono a “crescere” di livello ed intensità. Non è facile, ancora oggi, descrivere la sua voce; bisognerebbe ricercare tra gli aggettivi che si usano per descrivere la personalità di una persona piuttosto che i “mezzi” attraverso cui si manifesta, perché la più grande interprete del jazz di tutti i tempi, con le sue originalità, stravaganze e irregolarità ritmiche, era davvero circondata da un’aura poetica e da un linguaggio «indelebilmente singolare». Ai musicisti che si esibivano con lei, diceva sempre: «Sappiate che questa mia vecchia voce non può salire o scendere più di tanto. […] La mia voce è un casino, chi suona con me deve sapere bene quello che fa». Il grande valore aggiunto di Billie, oltre al talento, innato, che possedeva, risiede nelle interpretazioni dei brani, nel collegare le esperienze della propria vita e la drammaticità di esse, al dolore, alla sofferenza e al disagio delle storie protagoniste di quelle canzoni.
L’alcol, la droga, i frequenti arresti, segnarono molto la vita della Holliday, ma è da questo dolore che lei ha tratto “linfa vitale” per la sua musica che non aveva bisogno di seguire uno stile già collaudato; lei sentiva, prima di tutto, quel cantava e questo era già tutto.
Billie, nonostante gli alti e bassi della sua vita privata, riuscì ad affermarsi come artista, nonostante non avesse mai creduto di esserlo davvero («No, mio Dio, no! le vere artiste mi fanno piangere, mi rendono felice. Non so se sono mai riuscita ad avere un impatto simile sulle persone, credo proprio di no» affermava). Lester Young le aveva conferito il titolo di «Lady Day» , nel segno dell’alto rango della sua musica. Tutto quello che faceva – e sapeva – era che doveva “adattare” una canzone alla sua maniera, non bastava restituirne una versione, magari seguendo la forma o la maniera di qualcun altro; sentiva la sua voce un po’ come il fiato necessario a suonare uno strumento a fiato, come un “mezzo” per arrivare a significati più profondi e dare un valore, un peso, a un sentimento sincero. Miles Davis disse che «era una donna molto dolce, molto calda […] una donna splendida prima che l’alcool e la droga la distruggessero. […]ogni volta che lei cantava “non lasciare che mi tocchi con le sue mani calde” potevi praticamente sentire quello che sentiva lei. Il modo in cui la cantava era magnifico e triste. Tutti quanti amavano Billie».
